Per cambiare l’economia servono anche gli studenti

Si è appena conclusa a Edimburgo la conferenza dell’Institute for New Economic Thinking (INET, di cui sono stato grantee), organizzazione con il fine di cambiare l’insegnamento e la ricerca in economia. Dopo che la crisi del 2007-2008 ha reso evidente il fallimento degli economisti su tanti piani, possiamo dire che l’economia reale è cambiata più che le teorie sostenute da tanti colleghi. Sebbene non ne siano i principali responsabili, troppi economisti rimangono complici di troppe ingiustizie, che legittimano con teorie ormai screditate. Il problema riguarda tutti, perché tutti siamo vittima delle politiche economiche sbagliate. Rimane molto lavoro da fare, ma qualche segnale incoraggiante c’è.

Anzitutto, con il concetto di ristagno secolare (secular stagnation) anche gli economisti “mainstream” (maggioritari), quelli che sostengono le teorie tradizionali, ormai riconoscono che la crisi dei mutui americana, diventata poi la peggiore crisi globale dagli anni ’30 in qua, ha cause profonde, che hanno a che fare con l’organizzazione mondiale della produzione e della distribuzione dei redditi.

Purtroppo, l’accumulazione di debiti negli Stati Uniti va avanti – e dobbiamo quasi dire per fortuna, perché altrimenti ci sarebbe ancora più disoccupazione in Europa – così come continuano gli squilibri globali causati dalla Cina e dall’Europa (sí, anche noi), che cercano di crescere a spese degli altri, vendendo all’estero più di quanto comprano.

In molti paesi le diseguaglianze sono un po’ diminuite, principalmente perché i ricchi sono un po’ meno ricchi, e in alcuni paesi dal reddito medio-basso, anche perché piano piano emerge una classe media. Ma come ha ricordato Joseph Stiglitz (forse il più famoso economista mainstream) alla conferenza, mentre abbiamo tante norme contro la “doppia esposizione”, cioè il rischio che un’azienda paghi le tasse due volte (sia mai!), non abbiamo ancora un sistema per far sì che le multinazionali le paghino almeno una volta, in almeno un paese.

Inoltre, la piccola ripresa in Europa è stata finora spinta da una politica monetaria molto espansiva, che ha certamente il rischio di alimentare nuove bolle finanziarie, e la crescita è tutt’altro che scontata quando questo stimolo avrà, forse presto, fine. I governi europei (e non solo) continuano a pensare che il debito pubblico sia un problema più grave della disoccupazione, e secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale l’Italia – non certo l’ultima tra le economie del continente – non tornerà al livello reale del reddito che aveva nel 2007 prima della metà del prossimo decennio.

Di fronte a questa situazione, il tema principale della conferenza INET è stato il dualismo. Negli Stati Uniti, dualismo significa che lungo le due coste oceaniche una parte del paese, trainata dalle nuove tecnologie e la finanza, ma anche dal settore immobiliare nelle grandi città, continua a crescere e arricchirsi, mentre tutta la parte centrale (il Midwest) vede il proprio tenore di vita, addirittura l’aspettativa di vita, ridursi.

C’è una questione città-campagna, ma anche una questione razziale e di genere, oltre a quella ambientale, e l’ampio discontento è certamente una causa fondamentale della vittoria elettorale di Trump.

In Europa, dualismo significa che un gruppo di paesi ‘centrali’ cresce e innova, seppur con grandi problemi di diseguaglianza al loro interno, mentre i paesi della periferia dell’Europa rischiano una “mezzogiornificazione” incipiente (la figura sotto mostra la produzione industriale nel centro e nei paesi mediterranei, prendendo a riferimento il momento dell’ingresso nell’euro).

 

Di fronte a queste tendenze, il bisogno di teorie economiche diverse, che rispondano alle esigenze della maggioranza della popolazione e non agli interessi delle élite, è evidente. Qui forse, per una volta, siamo noi italiani ad avere un “vantaggio competitivo”.

Alla conferenza hanno partecipato almeno un 10% di economisti italiani: dalla Sapienza, Roma Tre, Bergamo, Pavia, e dall’estero; e soprattutto tra le donne economiste, la presenza italiana è stata preponderante e apprezzata. In Italia la tradizione di pluralismo degli approcci all’economia è radicata, sebbene ancora troppo sottovalutata.

Da questo punto di vista movimenti come Rethinking Economics, fondato dagli studenti per richiedere (dovrebbero pretenderlo!) l’insegnamento di un’economia meno dogmatica e più pluralista, possono essere un grande stimolo.

Come hanno sottolineato nella conferenza i premi Nobel George Akerlof e James Heckman, certo non pericolosi sovversivi, gli attuali sistemi di “valutazione della ricerca” basati sul semplice conteggio di quanti articoli si riesce a pubblicare su certe riviste accademiche, senza nemmeno leggerli, non può che danneggiare lo sviluppo della scienza economica.

Purtroppo questa è stata, finora, la strada seguita da vari recenti ministri dell’università e della ricerca. È tempo di ripensarla, e di ripensare l’economia.

 

 

I Bitcoin hanno un futuro?

I Bitcoin potranno forse sopravvivere in una nicchia di pagamenti online, ma difficilmente potranno diventare una moneta complementare (tantomeno sostituire) i nostri amati e odiati euro.
Tradizionalmente (cioè, se non si è un falco monetarista) si associano tre funzioni alla moneta. Come unità di conto, la moneta misura il valore di tutti i beni e servizi. Come mezzo di scambio, è quello che diamo per “pagare”, cioè in cambio di qualcos’altro. E come riserva di valore, ci permette di conservare potere d’acquisto, cioè ci aspettiamo che la moneta fornisca il diritto di acquistare beni o servizi in futuro.
Da tutti e tre i punti di vista, i Bitcoin lasciano molto a desiderare.

Una barretta di cioccolato potrebbe costare “un euro e mezzo”, ma quanto costa un euro? Un euro. Così come, quant’è lungo un metro? Un metro. In linea di principio, la lunghezza di una barretta di cioccolato non cambia se la misuriamo in metri o in centimetri, e allo stesso modo il suo valore non dovrebbe cambiare se lo misuriamo in euro o in Bitcoin. Però ci sono alcuni valori che lo Stato impone di misurare in euro, la valuta che ha “corso legale” nel paese: in primis le tasse e imposte che dobbiamo pagare allo Stato stesso, ma anche i crediti e debiti tra privati cittadini, se ad esempio finiamo in tribunale.
Quindi anche se contrattualmente due parti possono decidere (quasi) qualsiasi strumento di pagamento e qualsiasi unità per misurare il pagamento dovuto, per alcune transazioni questo non è possibile, e il Bitcoin non potrà mai sostituire integralmente le valute che hanno corso legale nei singoli paesi. Se i pagamenti alle pubbliche amministrazioni vi sembrano poca cosa, considerate che in molti paesi europei il settore pubblico è vicino alla metà dell’intero Prodotto Interno Lordo. Praticamente nessuno può fare a meno di avere molti euro ogni anno.

Questo ragionamento ci porta a realizzare che se una moneta è usata come unità di conto, molto probabilmente diverrà usata anche come mezzo di scambio (“quanto ti devo?” “Un euro e cinquanta”). Ma come strumento di pagamento, il Bitcoin ha un ulteriore, gravissimo difetto: l’assoluto rispetto della privacy di chi lo usa, se lo sa usare bene. Ma come, garantire i diritti è un difetto? A volte sì, purtroppo. Gli economisti pensano a modelli teorici in cui tutti si comportano in un certo modo (egoista, ma rispettoso delle regole), e a volte anche gli informatici, per quanto possano avere idee tecnologicamente geniali, ignorano il fattore umano. Nel caso del Bitcoin, è noto che sempre più individui e gruppi criminali tentano di usare questa cripto-moneta per riciclare denaro sporco.

Pensiamo alle scene un po’ surreali di Pablo Escobar, il famoso narco-trafficante, che seppellisce in campagna cubi di dollari, non sapendo come conservarli (e investirli). Riciclare il denaro ottenuto con attività illegali (o quantomeno in nero) è un passaggio cruciale per la criminalità. Da un lato, è quasi la sua ragion d’essere: a parte la criminalità organizzata che desidera il controllo del territorio, avrebbe poco senso dedicarsi ad esempio al commercio di beni illegali, se i guadagni di tale attività non possono essere goduti o almeno usati. D’altro lato, il riciclaggio è uno dei passaggi in cui la criminalità diviene vulnerabile, perché deve necessariamente entrare in contatto con l’economia “pulita”. Per questo, identificare le attività di riciclaggio è spesso una fase cruciale anche per le indagini successive.
Ora, se improvvisamente sul mio conto corrente in banca versassi ogni mese 1.000€ o 2.000€ per vari mesi di seguito, senza che questo denaro abbia a che fare con nessuna fonte di reddito nota, quantomeno l’Agenzia delle Entrate inizierebbe a incuriosirsi. Invece, convertendo i miei euro in Bitcoin e usando poi quelli, è possibile sfuggire sì all’occhio di Google o delle altre grandi multinazionali che guadagnano sui nostri dati, ma purtroppo anche all’occhio dello Stato.
Ripeto, il problema qui è che non possiamo immaginare il mondo e creare strumenti sulla base dell’ipotesi che tutti gli esseri umani siano giusti e buoni. Ma al di là dell’aspetto etico (che è fondamentale), è anche immaginabile che se i Bitcoin potranno essere usati facilmente per attività illecite come il riciclaggio, le autorità almeno dei paesi più grandi inizieranno a ostacolarne l’uso. I Bitcoin sono quindi soggetti a quello che in gergo si chiama (con un terribile anglicismo) “rischio regolamentare”.

Ma c’è di più. Dal punto di vista economico, la caratteristica principale dei Bitcoin non è la natura digitale. A loro modo, anche i punti del supermercato o i buoni benzina sono “monete” dalla circolazione molto limitata e che esistono primariamente sugli schermi di qualche computer. I Bitcoin si distinguono perché non sono emessi e regolati da un’autorità centrale, come le banche centrali per le monete tradizionali, ma la loro emissione è definita da un algoritmo che ne limita il numero da qui al 2040. Nell’aspettativa di molti, questo dovrebbe “garantirne” la crescita di valore, ovvero produrre una costante discesa dei prezzi di tutti i beni e servizi, espressi in Bitcoin. Se avvenisse un’adozione generalizzata dei Bitcoin, si produrrebbe una tendenza costante alla deflazione (il contrario dell’inflazione) che è precisamente tra le cause dei guai europei. Quando si ha una riduzione generalizzata dei prezzi, alcune imprese vanno in perdita, ridurranno le loro attività o potrebbero chiudere. Inoltre, i debitori si trovano a ripagare una somma che in termini reali, cioè a quanti beni e servizi corrisponde, diventa sempre più pesante. Ci si mettono perfino i consumatori che, aspettando riduzioni di prezzo in futuro, posticipano gli acquisti. Solo nell’ultimo anno, la BCE ha emesso circa 500 miliardi di euro in più per continuare a sostenere l’economia, anche se lo stimolo monetario si sta pian piano riducendo, tra l’altro per via delle critiche dei conservatori. Eppure, nemmeno la Bundesbank tedesca penserebbe mai di proporre che l’emissione di euro seguisse un preciso algoritmo, predeterminato per i prossimi decenni!

Infine nella terza dimensione, cioè come riserva di valore, i Bitcoin danno il peggio di sé. Se acquisto Bitcoin per investire una parte dei miei risparmi, potrò poi rivenderli a un numero molto minore di persone rispetto ai titoli di Stato o alle azioni quotate in Borsa. I Bitcoin sono quindi un’attività finanziaria molto “poco liquida”, e in quanto tale subiscono oscillazioni di prezzo molto più ampie delle azioni o dei titoli di Stato. Inoltre, se compro le azioni di un’azienda potrei avere una valutazione diversa delle prospettive di quest’azienda, rispetto a chi me le ha vendute. Ma entrambi saremo d’accordo che in qualche modo il valore delle azioni deve essere collegato alla redditività dell’azienda. Invece, comprerò Bitcoin solo sulla base di quante persone penso vorranno comprarli da me in futuro, e a che prezzo. Ovvero, non c’è un dato “fondamentale” cui il valore dei Bitcoin sia collegato, e il loro prezzo dipende solo dalle aspettative di ognuno su cosa faranno gli altri in futuro. Infine, mentre le azioni rendono periodicamente dei dividendi, e i titoli di Stato e le obbligazioni degli interessi (per quanto bassi), il guadagno di detenere Bitcoin è puramente virtuale finché non lo incasso, ovvero finché non trovo qualcuno che effettivamente me li compri a un prezzo più alto di quelli cui li ho comprati io.

La somma di tutte queste caratteristiche rende l’investimento in Bitcoin molto simile al settore immobiliare prima della crisi (anche se per ora speculare contro i Bitcoin tramite derivati è tecnicamente difficile).
Se li si usa per qualcosa, abitarci per le case, fare acquisti per i Bitcoin, forse andrà tutto bene. Ma se si fa un investimento finanziario occorre sapere che se (quando) ci sarà un’inversione di tendenza nel loro prezzo, non vedremo un calo ma un vero crollo. Uomo avvisato…